venerdì 1 maggio 2009

La conoscenza è un male necessario.

Io so tante cose già di mio, poi leggo molto, mi interesso a tutto quello che posso, cerco di apprendere ogni cosa. Conosco benissimo la storia moderna e quella antica, ho studiato le cause del rapimento di Moro, sulla P2, conosco la storia della Brigate Rosse, della Prima e delle Seconda guerra mondiale, mi informo sempre su quello che accade in Africa, sulla guerra, su tutte le guerre, inizio a conoscere i segreti più “reconditi” della finanza, sono un esperto nella ricerca di un lavoro. Mi interesso di un po’ di tutto, ormai anche di fisica (con risultati alterni). Più imparo, più immagazzino, più taglio ponti dietro di me, più crollano le mie illusioni su un mondo migliore. Questo però non mi impedisce di continuare a imparare,a informarmi, a qualsiasi costo.

Facciamo alcuni esempi:

sono diventato una sottospecie di esperto in prestiti personali ma mi rendo conto sempre più spesso che “un americano su dodici ha un’arma e il nostro problema è dare un arma alle altre undici”. In altre parole il nostro lavoro è dare armi a dei serial killer. Qualche volta andrà bene ma spesso ci scapperà il morto. Io lo so, lo vedo. Ora più che prima, e sempre più spesso, la gente vive al limite delle proprie possibilità. Io lo so, e a volte fa male saperlo, soprattutto se sei conscio di non poterci fare nulla, se sai già che non cambierai le cose. Allora a cosa serve sapere che le persone hanno bisogno di aiuto perché non arrivano a fine mese e non poterci fare niente? Non sarebbe meglio non saperlo? Spesso credo di si.

A cosa mi serve conoscere i motivi dello scoppio delle guerre se non posso fare niente per evitarle?

A cosa mi serve sapere che la religione (ogni religione) offusca le menti, se poi devo sentire parlare persone che (ancora) nel 2009 rompono i coglioni sul crocifisso nelle scuole o sulla costruzione di moschee sul suolo della “patria natia” o vanno in Africa e dire che il problema dell’Africa è il preservativo (!)? A volte preferirei non saperlo, preferirei essere un pecorone che ogni domenica mattina si mette il vestito buono e va a messa, poi esce e la sera va troie, o va a casa e picchia i bambini. Avrei sicuramente meno problemi, almeno così mi dicono.

Mi prometto ogni fine settimana di non approfondire troppo gli argomenti “scottanti” o dolorosi. Ogni mattina mi alzo e mi ripeto che non devo informarmi, che devo resistere alla tentazione di farmi\di fare delle domande perché l’informazione non è solo sapere, è anche dolore. Non è come diceva Tocquellive: “un popolo maturo è un popolo informato” (citato a braccio). Gli italiani sono, nella media, più che ignoranti ma vivono alle grande. Quei pochi che fanno o si fanno domande poi stanno di merda, non hanno certezze, sono sempre tristi. Anche io faccio parte della seconda categoria, pur conscio di quanto appena scritto. Nonostante questo ci sono ricascato. Mi ero riproposto di non chiedere, c’ero pure riuscito per un po’. Poi ho dovuto fare una precisazione, dovevo farla per forza, era per evitare di soffrire, non potevo farne a meno. Così ho saputo troppo, molto più di quanto mi interessasse, più di quanto avessi chiesto. Risultato: tre giorni senza parlare.

Da quando ho avuto l’informazione è ricominciato il dolore e non ho potuto fare a meno di cercare di superarlo. Razionalizzando chiaramente, poi smettendo di informarmi, dicendomi che è normale, che può essere, che prima o poi sarebbe successo, che dovevo aspettarmelo, che ( tanto per cambiare) non ci sarà un happy end. Che, in fondo, c’erano tutti i segni. Che, in fondo, (e te dai) l’esperienza fa parte della vita; che per me non cambierà niente . Le cose non cambieranno e spetta a me, e solo a me, capirlo e accettarlo. Il mio grosso problema è che per quanto razionalizzi, per quanto ne parli ( o non ne parli, a seconda dei momenti) non riesco a dimenticare, a perdonare, forse anche a capire. Dimentichiamo la metà delle cose che ci insegnano a scuola ma per quelle che ci fanno soffrire abbiamo una memoria da elefante.

Credo che sia colpa dell’eccesso di notizie. Se non fossi caduto nella tentazione di informarmi non avrei dovuto guardare il segno fatto sulla mano destra in un giorno ormai lontano per sancire una promessa. Non avrei dovuto cancellare con lo sguardo quella cicatrice perché era passato il suo tempo, e non per colpa sua. Forse non avrei dovuto prendere le tenaglie per tagliare quel “legame”, quell’infinito filo rosso che mi ha guidato fin dalla mia infanzia e che non mi ero (ancora) completamente rassegnato a spezzare.

Alla fine l’ho tagliato ma ho chiuso una porta dietro di me e ne porto i segni, segni che si vedono. Anche se ho cancellato quella cicatrice, di cui non avevo parlato con nessuno, a cui mi ero affezionato, ora ne ho di nuove, più profonde, che non cancellerò altrettanto facilmente, o meglio che non ho idea di come poter cancellare.

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